Servire Dio negli ultimi

Intervista a Maria Negretto di Stefano Stimamiglio

In quarant’anni di presenza attiva nella zona di Bafoussam, in Camerun, ha impegnato se stessa nell’affrontare ogni tipo di bisogni e urgenze. Radio Speranza, un progetto strategico di formazione della gente.

«Bonsoir, ma soeur», «Bonsoir, mon fils». Aeroporto di Douala, Camerun, ore 20 locali. L’aria è umidissima, quasi manca il respiro a chi scende dall’aereo in arrivo da un’Europa ormai avviata verso i freddi autunnali. L’abbraccio con Maria è veloce e sbrigativo nella confusione da mercato che regna nella hall. Kader, che si è intrufolato fin lì chissà come, si impossessa manu militari del trolley stracarico di valigie pesanti come macigni e lo spinge con tutta la forza verso l’uscita facendosi spazio a parolacce. Sa che alla fine lo attenderà la meritata mancia. La mano ossuta di Maria si posa dolcemente su quella minuta e nerissima del bambino, quasi ad aiutarlo nello sforzo disumano. O forse solo per trasmettergli per un istante tutta la tenerezza di quella mamma che il piccolo, con ogni probabilità, non ha mai visto. Kader, mi dirà più tardi Maria, è un bambino di strada.

Quel rapido e all’apparenza insignificante gesto mi svela subito il cuore di questa donna interamente consacrata a Dio e ai poveri, da 42 anni in Camerun a servire Dio negli ultimi. Essere missionari al femminile in Africa può assumere anche la sua figura esile, minuta. Maria Negretto, 73 anni di età per 41 chili di peso, fisico segnato da decenni di lotta contro la lebbra, la tubercolosi, l’Aids, la povertà materiale e morale delle popolazioni del Camerun, combatte oggi probabilmente l’ultima grande battaglia della sua vita di missione: liberare e riscattare socialmente i minori ex carcerati della prigione statale di Bafoussam, la terza città del Camerun, dove lei vive.

Quella di Maria è una storia tutta segnata dalla ricerca di Dio

Ravennate di origine, ancora giovane inizia il cammino di formazione con le Figlie di San Paolo. Uscita dalla congregazione d o p o pochi anni, la ragazza si impianta a Rimini, dove consegue il diploma da infermiera. Siamo alla fine degli anni ’60, la Chiesa è in fermento, la decolonizzazione avanza e le ansie per una giustizia reale tra i popoli infervorano anche il suo giovane cuore. Decide, dopo aver ben ponderato la cosa e lottato non poco con i superiori (nel frattempo si è consacrata in un’altra istituzione della Famiglia Paolina, l’Istituto Maria Santissima Annunziata), di partire per la missione con un progetto della cooperazione contro la lebbra gestito dai Tecnici volontari cristiani. «La lebbra per gli africani è una maledizione», dice con quel suo tipico tono di voce basso, quasi a schermirsi. Già, la lebbra.

L’artrosi al ginocchio che la costringe da mesi a muoversi con il bastone è proprio il lascito doloroso di quei primi 20 anni di missione passati a chinarsi a terra sui lebbrosi nel Noun, un vasto territorio a maggioranza musulmana situato nella regione dell’Ouest (l’Ovest) del Camerun. L’inizio è quasi casuale: «Un padre dehoniano, confessando alcune persone in un villaggio, aveva sentito un odore nauseabondo di carne in putrefazione. Parlandone insieme, abbiamo capito che nei villaggi nascondevano i malati di lebbra per vergogna». Così, qualche mese dopo il suo arrivo in Camerun, parte per villaggi alla "caccia" di lebbrosi. «Dopo un lungo lavoro di convincimento dei capi villaggio abbiamo, con gli altri volontari, ottenuto il permesso di recarci presso i malati. Quando tutti hanno visto che avevamo i mezzi per curarla, hanno cominciato a confidarsi. Abbiamo così scoperto che c’erano molti altri lebbrosi segregati nelle casette costruite fuori dai villaggi per il lavoro nelle piantagioni. Molti di loro erano soli, abbandonati, magari sotto gli alberi del caffè, con solo un barattolino con acqua sporca da versare sulla piaga, spesso enorme e piena di vermi". Un lavoro durissimo, di accoglienza innanzitutto. È mettendo le sue mani in quella carne piagata che Maria ha capito che il fumare poteva aiutarla un po’ a sopportare quell’odore nauseabondo.


Maria Negretto, impegnata contro la lebbra, ha formato agenti sanitari per distribuire
medicinali e unprogetto di sviluppo agricolo per i minori tirati fuori dal carcere.

"In 20 anni abbiamo debellato la lebbra nella nostra zona attraverso la cura e soprattutto attraverso l’educazione sanitaria, insegnando che occorre lavarsi bene, con acqua pulita, e che bisogna curare l’alimentazione. A causa dei tempi lunghi della cura, che spesso scoraggiava i malati, abbiamo dovuto anche creare un sistema di fedeltà "a premi" per chi era perseverante. Il rischio infatti è che, delusi dagli scarsi risultati iniziali, si rivolgessero ai guaritori del villaggio, con salassi di denaro e, ovviamente, senza risultati". Nel frattempo altre emergenze venivano alla luce: "In una città abbastanza grande, Dschang, abbiamo trovato una pupponière, una sorta di ricovero per orfanelli la cui madre era morta durante il parto. Capimmo che molte donne morivano, dando alla luce i loro piccoli. Così abbiamo cominciato a fare educazione sanitaria alle donne nei villaggi per prepararle al parto". La ricetta è quella giusta: cura, sì, ma anche, e soprattutto, formazione: "Il segreto per debellare la lebbra, l’Aids ma anche le tanti morti di bambini per una banale diarrea a causa della disidratazione, è stato effettivamente quello dell’educazione sanitaria. Per questo avevamo pensato con il vecchio vescovo di Bafoussam di aprire Radio speranza, un’emittente per la formazione sanitaria e religiosa della popolazione. Vedremo se il Signore sosterrà questo progetto". I lunghi anni non danno tregua alla missionaria. Finanzia la costruzione di scuole, asili, chiese. Aiuta e incoraggia seminaristi e sacerdoti nella loro difficile missione. Non nega mai a nessuno, tanto meno oggi, una cura "volante", un aiuto o un consiglio. Negli anni il Camerun esce dall’emergenza sanitaria, anche con l’aiuto della cooperazione internazionale: "A Bangkoup, un piccolo villaggio nella foresta, ho aperto su richiesta del governo, un grande dispensario di medicine, centro di riferimento per mettere su in ogni villaggio una piccola farmacia e una rete di agenti sanitari locali formati da noi volontari per distribuire i medicinali nei villaggi. Negli anni ho formato 150 sanitari: una rivoluzione del sistema sanitario che ha funzionato, anche se mi è costato un’enorme fatica e molto lavoro".

Nel dicembre 1998 Maria apre un centro sanitario a Baleng, nella periferia di Bafoussam. Un dispensario di medicine, un reparto di maternità per accompagnare le donne al parto, uno per la cura dell’Aids, un laboratorio di analisi per scoprire subito le malattie e alcune casette per ricoverare i malati più gravi, specialmente quelli terminali, ai quali lei, secondo il suo stile, non fa mancare gli ultimi ritrovati della medicina per rendere meno duri gli ultimi giorni di vita: le cure palliative.

L’ultima frontiera: le carceri.

"Dieci anni fa ero incuriosita da quanto mi dicevano sulle prigioni di Bafoussam. Così ho chiesto a un sacerdote dehoniano del comitato Justice et paix, padre Bernard, di visitarle. Volevo rendermi conto di come vivevano i prigionieri. Una volta messi i piedi lì dentro ho avuto subito compassione di questi uomini, ragazzini, donne. "Non posso mica lasciare gente in queste condizioni", mi sono detta, "con la rogna, i capelli lunghi, le pulci, tutto sporco, niente acqua né sapone, né cibo...". Così la donna comincia ad andare con frequenza in carcere per curare i casi più gravi. Ad accompagnarla sempre il solito François, l’anziano ergastolano che lì è un po’ come il capo villaggio, un buon padre di famiglia che conosce tutti. François sa già che finirà lì i suoi giorni: è lui che le indica ogni volta i casi più gravi, come quello di Moussad, un ragazzo di 23 anni sbattuto in galera dopo essere stato beccato con delle armi dalla polizia e "impallinato" dagli agenti, che in casi come questo aprono il fuoco senza farsi grosse domande. Ritrovato tre mesi dopo da Maria in carcere con la gamba ormai in cancrena per assenza di cure, la donna intercede per lui e ottiene di trasportarlo in ospedale per l’amputazione della gamba. Se il ragazzo oggi è vivo, lo deve solo a lei. In pochi anni la missionaria porta un po’ di umanità in carcere: le tubature per l’acqua corrente, il pavimento su tutta la superficie del carcere, la costruzione del "Salon Negretto" per il taglio dei capelli, una refezione quotidiana per i 300 carcerati più deboli, soprattutto i minori e i malati. Da ultimo un progetto di sviluppo agricolo per i minori tirati fuori dal carcere. "I soldi?", chiede lei con noncuranza. "Mi sono sempre arrivati per Provvidenza: al momento del bisogno il Signore non me li ha mai fatti mancare". Da anni è l’Associazione Maria Negretto di Rimini (www.associazionemarianegretto.org ) che, con un’encomiabile opera di animazione e sensibilizzazione nel territorio, sostiene le tantissime attività della donna. La domanda è d’obbligo: quale futuro quando lei non ci sarà più? "Agisco da sempre in stretto coordinamento con la diocesi. Gli uomini passano, le opere restano. Ho piena fiducia che quando verrà il momento il Signore attraverso il vescovo continuerà a far sviluppare il piccolo seme gettato da me e dai miei amici di Rimini".

Stefano Stimamiglio

Intervista su: Vita Pastorale - N.1 gennaio 2011